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Non è mai troppo tardi per conoscere il Maestro Manzi

Vent’anni fa, il 4 dicembre 1997, moriva Alberto Manzi. Il Maestro Manzi.
Certo, di maestri, con la iniziale maiuscola, l’Italia ne ha avuti parecchi, più di quanti tenda a ricordare. Eppure, Manzi è rimasto il Maestro anche perché ha unito la sua particolare pedagogia al medium che stava cominciando a cambiare l’Italia.
Io avevo sette anni quando Manzi cominciò la sua trasmissione più popolare, cioè Non è mai troppo tardi. Non me ne perdevo una e il confronto tra Manzi e la mia maestra di seconda elementare non era certo a favore di quest’ultima.

Non è mai troppo tardi: un titolo che è un sicuro segnale di fiducia verso le persone, anche le più umili. In effetti, furono le persone analfabete le sue più attente spettatrici perché Non è mai troppo tardi non significava solo imparare ma anche avere un pezzo di carta che lo certificava. E così, almeno un milione e mezzo di italiani analfabeti ottennero la licenza elementare. Poca cosa? Provate a guardare le facce degli “alunni” di Manzi e non la penserete più così. Eccesso di tv pedagogica? Può darsi, ma resta il fatto che quel milione e mezzo di persone analfabete non si sentirono più escluse dalla nazione chiamata Italia. L’Italia che festeggiò il primo centenario dell’Unità era meno disunita di oggi. Dopo cento anni sentiva di avere davanti un futuro. Un futuro migliore del passato che si era lasciata alle spalle. E il passato significava anche l’ignoranza nella quale i governanti vollero tenere le classi popolari.
Eppure, Non è mai troppo tardi fu in qualche modo voluta da Aldo Moro, che trovò un ascolto operativo nella Rai democristiana. Altri tempi o, forse, altra classe dirigente.
A tenere vivo il ricordo migliore di Manzi ci ha pensato (e ci pensa) il Centro che porta il suo nome e che opera a Bologna, presso l’Assemblea Legislativa, costituito dalla Università, dalla Rai e dal Ministero della Pubblica Istruzione. Ma il primo motore fu il professor Andrea Canevaro, che propose all’allora presidente Errani di ospitare a Bologna i materiali di Alberto Manzi. E così è avvenuto, per volere di Sonia Manzi, la vedova del Maestro.
Una parte del merito, una buona parte diciamo pure, è dovuta anche a Roberto Farnè, docente dell’Ateneo bolognese, che condusse una lunga intervista video con Alberto Manzi pochi mesi prima della sua morte. Chi non ha mai avuto la possibilità di vedere il documentario ora può leggere quella intervista in un libro pubblicato dalle edizioni Dehoniane di Bologna. “Non è mai troppo tardi, testamento di un maestro. L’ultima conversazione con Roberto Farnè” è il titolo del volume.
La casa editrice bolognese ha pubblicato anche un secondo libro per celebrare il maestro a vent’anni dalla morte: “Un maestro nella foresta. Alberto Manzi in America latina”, dove si raccontano alcuni degli innumerevoli viaggi fatti tra il 1956 e il 1977, durante le vacanze estive, dedicati ad istruire i contadini sudamericani. Senza la capacità di leggere e scrivere i campesinos non potevano iscriversi ai sindacati. In Sudamerica Manzi trovava appoggio e ospitalità presso molti sacerdoti, ma le autorità decisero che i contadini avevano imparato anche troppo e tolsero a manzi il permesso di entrare nei loro paesi, considerandolo persona non gradita.
Manzi dedicò gli ultimi anni della sua viva ad amministrare il comune di Pitigliano e a realizzare una trasmissione per insegnare l’italiano agli “extracomunitari” residenti in Italia.
Dopo vent’anni, forse c’è ancora bisogno di Manzi.

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