Stavamo giocando a ping pong, una occupazione da fancazzisti piccolo borghesi che non avevano voglia di mettersi sui libri, anche perché era esplosa la primavera. Eravamo nel 1970 e frequentavamo la prima liceo classico, eravamo arrivati alla fine dell’anno e non avevamo esami.
Giocavamo a ping pong nel cortile di un amico e avevamo messo su un disco nel giradischi. Quella volta il disco l’aveva portato un altro amico, glielo aveva prestato il fratello più grande. Di solito ascoltavamo roba più facile per noi, ma non ci dispiaceva far credere di essere un poco alternativi.
Confesso che ci misi un poco a capire che stavamo ascoltando jazz, perché la musica mi pareva fondersi con il rumore della città, delle auto, delle persone che parlavano aldilà della recinzione. Non so perché ma allora pensai che quella musica mi stesse inseguendo, non mi sentivo preda di cacciatori ma un pedone che doveva camminare in fretta in una città molto diversa dalla nostra, molto più moderna, zeppa di persone, futuribile.
Diciamo che quella musica non aiutava molto a giocare, il disco venne tolto a furor di popolo, e furono inutili le proteste mie e dell’amico che l’aveva portato. Del resto, era un disco doppio e il timore che andasse avanti sempre così aveva terrorizzato quasi tutti. Quasi.
Il disco aveva una copertina bellissima, era impossibile non innamorarsene: l’aveva disegnato lo stesso artista che aveva disegnato Abraxas di Santana e questa lontana somiglianza aveva fregato tutti.
Non è un disco facile ancora oggi per me, e allora lo era certo di meno, ma è stato un disco di svolta: quella volta pensai che il futuro del jazz (ma non solo) passava da quei solchi neri e portava il nome di Miles Davis.
In realtà portava anche i nomi di molti altri musicisti, perché Davis non ne sbagliava molti e tanti di loro sono poi divenuti quel che ancora oggi sono: Dave Holland, Chick Corea, Joe Zawinul (rip), Jack DeJohnette, Wayne Shorter, John McLaughlin.
Il disco era proprio Bitches Brew, e manca il nome dell’altro autore: Teo Macero, il produttore che tagliò e cucì particelle di musica per ricavare il risultato finale.
Si è detto che quel lavoro era troppo ostico e allo stesso tempo si è scritto che Davis lo aveva inciso per fare soldi e raggiungere i giovani: è tutto vero ma non spiega nulla. Tecnicamente non è il primo lavoro di jazz rock (la parola fusion la lascerei perdere), ma i pochi esempi precedenti non se li ricorda quasi nessuno. E’ vero, c’era stato un altro disco, intitolato In a silent way, ma guarda caso era sempre suo, di Davis.
Non riesco a farmi una ragione che questo disco abbia quasi cinquant’anni. Eppure, nulla sarebbe stato quel che è stato, non solo nel jazz, se lui non avesse aperto una nuova strada. Il fatto è che non era la prima volta.
Davis non ha mai smesso di innovare, di inventare, di ascoltare, di ruminare le musiche degli altri. Di mescolare e ibridare: quella volta l’Africa, l’elettronica, gli strumenti elettrici come il piano o il basso, il rock.
In questo disco si ascolta la modernità che allora iniziava e che non è ancora terminata.