A metà dell’Ottocento Walt Whitman strappava le pagine bianche delle copie invendute di Foglie d’erba e le usava per annotare i suoi pensieri sulla lingua. Quei fogli sono rimasti come foglie secche tra le pagine dei suoi manoscritti.
Whitman cercava il segreto della lingua e delle parole in un paese giovane, nel quale razze, lingue, culture si stavano già mescolando. Si mescolavano gli uomini e le donne, si mescolavano le parole e le musiche. Scriveva il poeta americano:
“Il dialetto negro fornisce centinaia di parole stravaganti, molte delle quali sono state adottate nel linguaggio comune della massa del popolo (…) Il dialetto negro mostra i segni della futura teoria della modifica di tutte le parole della lingua inglese per scopi musicali, per un grand opera nativo americano, lasciando le parole esattamente come sono nello scritto e nel parlato, ma le stesse parole così modificate da soddisfare perfettamente gli scopi musicali, in base a grandi e semplici principi.”
Non era la mescolanza che metteva paura a Whitman, ma la lingua non lo metteva a suo agio. No, non era colpa dei negri (gli afroamericani di oggi) ma della pronuncia yankee, che per lui era nasale e sgradevole. Un difetto insopportabile e che poteva essere curato solo mettendo in cattedra insegnanti musicali.
“Probabilmente potrebbe essere modificata assumendo nelle scuole solo insegnanti di voce ricca di tonalità – e facendo esercitare i bambini a parlare di petto e con Metodi gutturali e baritonali. Inevitabilmente si riflettono nella voce de deformità fisiche, morali e mentali d’ogni tipo”.
Credo che Walt Whitman non avrebbe mai dato il premio Nobel a Bob Dylan, certo non per la pronuncia e la sua vocalità.