Omaggio a Gramsci e a due lettere dal carcere sulla musica jazz

Antonio Gramsci (ottant’anni fa la morte) non sarà certo ricordato per due lettere sul jazz. Due lettere scritte alla fine degli anni Venti.

Gramsci era chiuso in carcere e, quindi, aveva poche informazioni dall’esterno sulla vita sociale, eppure si volse curioso verso la giovane musica che veniva dall’America.

Lette oggi, le due lettere appaiono come minimo contraddittorie e, se vogliamo anche essere sinceri, decisamente eurocentriche, al limite della diffidenza razziale. Lette oggi, da un appassionato di jazz, le due lettere mostrano con evidenza una cultura bianca, europea e vocata alla dea Ragione.

Bene, e ora proviamo a voltarle e a guardarle in controluce. In primo luogo la febbre del jazz, che aveva contagiato l’Europa e, con qualche ritardo, anche l’Italia, era percepita da Gramsci come l’utilizzo della musica a scopo di controllo sociale.  Una posizione perdente ma decisamente stimolante, poiché faceva intendere la volontà di destrutturare l’auto-controllo personale di milioni di persone, in particolare giovani, per guidarli verso forme di controllo più sofisticate.

Ci dicono qualcosa queste riflessioni? A me paiono non così lontane dalle elaborazioni della Scuola di Francoforte. Ma Gramsci era rinchiuso in carcere, la sera non poteva andare a osservare da vicino ciò che accadeva nei tabarin e nelle sale da ballo, nei teatri e nei cinema. Eppure, le leggerete poco sotto, io vi sento la paura per una società massificata, consumista, semplificata.

In queste lettere, Gramsci non ne fa cenno, ma è una riflessione che si ricollega alla potente industria della pubblicità che prosperava negli Usa e che il pensatore sardo considerava parte di un disegno (volontario o involontario) o di una cultura diffusa che puntava al controllo sociale. Gli Stati Uniti era intervenuti in Europa solo nel 1917 ma giusto in tempo per salvare le sorti di Gran Bretagna, Francia e anche Italia.

Infine, sullo sfondo (ma poi mica tanto) io vedo la potente riflessione di Gramsci su “americanismo e fordismo”. Il “gorilla ammaestrato”, che era nei desideri e nelle azioni di Taylor, non esprimeva forse il fine di “sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale“?

Il taylorismo, e in qualche misura anche il jazz, erano il punto di approdo di una trasformazione che si affermò con l’industrialismo?
Dal punto di vista europeo (e lo ripeto ancora: chiuso in una cella) si può capire  questa critica al “fordismo” musicale (le orchestre erano gestite come catene di montaggio e la libertà espressiva del gorilla ammaestrato era spesso nulla o assai modesta).
Antonio Gramsci non era isolato. Il compositore Darius Milhaud, tra i primi ad ascoltare in USA autentiche band formate da jazzisti afroamericani, parlò di “musica che è meccanizzata e precisa come una macchina”; usando quasi le stesse parole Lunaciarskij, commissario della cultura nella Russia bolscevica, definì il fox-trot come: “Un ritmo piuttosto complesso, basato su una meccanicità esasperata […] ispirata proprio al ritmo delle macchine.
Questi ritmi hanno la stessa funzione che ha la macchina nelle mani della borghesia: sono disumani, annichiliscono la volontà del singolo”.
E veniamo alle due riflessioni contenute in due lettere dal carcere.
Nella lettera all’amico Berti dell’8 agosto 1927, di qualche mese precedente quella a Tania, Gramsci, parlando di una sua recente lettura, il libro di stampo fortemente nazionalista ed eurocentrico di Henri Massis “Défense de l’Occident”, annotò:
Ciò che mi fa ridere è il fatto che questo egregio Massis, il quale ha una benedetta paura che l’ideologia asiatica di Tagore e Ghandi non distrugga il razionalismo cattolico francese, non s’accorge che Parigi è diventata una mezza colonia dell’intellettualismo senegalese e che in Francia si moltiplica il numero dei meticci. Si potrebbe, per ridere, sostenere che se la Germania è l’estrema propaggine dell’asiatismo ideologico, la Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e che il jazz-band è la prima molecola di una civiltà eurafricana“.

Lo sguardo di Gramsci era rivolto alla Francia, che fu il primo e più accogliente porto europeo per la musica che veniva dall’America.

(Il concetto di meticciato che Gramsci introduce riveste oggi una particolare modernità, benché sia da lui utilizzata in termini negativi).

Infine, ecco la seconda riflessione, contenuta in una lettera a Tania del 1928.
Da questo punto di vista, se un pericolo c’è, è costituito piuttosto dalla musica e dalla danza importata in Europa dai negri. Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l’avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato degli jazz-bands, rimangano senza risultati ideologici; a) si tratta di un fenomeno enormemente diffuso, che tocca milioni e milioni di persone, specialmente giovani; b) si tratta di impressioni molto energiche e violente, cioè che lasciano tracce profonde e durature; c) si tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel linguaggio più universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente comunica immagini e impressioni totali di una civiltà non solo estranea alla nostra, ma certamente meno complessa di quella asiatica, primitiva ed elementare, cioè facilmente assimilabile e generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il mondo psichico. Insomma il povero evangelista fu convinto che, mentre aveva paura di diventare un asiatico, in realtà egli, senza accorgersene, stava diventando un negro e che tale processo era terribilmente avanzato, almeno fino alla fase di meticcio.
Non so quali risultati sono stati ottenuti: penso però che non sia più capace di rinunziare al caffé con contorno di jazz e che d’ora innanzi si guarderà più attentamente allo specchio per sorprendere i pigmenti di colore nel suo sangue”.

E’ un testo alquanto elaborato, non banale, con venature ironiche, dirette in prevalenza contro la borghesia, che aveva nominato a musica di classe il nascente jazz. L’ironia di “un caffè con contorno di jazz” mi richiama (lo so che non sarebbe corretto) Adorno: “Il consueto jazz commerciale può ad esempio adempiere la sua funzione solo se non viene inteso nel senso dell’attenzionalità ma nel corso di una conversazione e soprattutto come accompagnamento al ballo”.
Insomma, quando Adorno scrive che “la coscienza delle masse di ascoltatori è consona alla musica feticizzata” io intravedo una preoccupazione politica non differente.
Ovviamente, un appassionato di jazz come me non può concordare con l’analisi negativa di Gramsci, ma non posso non rimanere ammirato per la lucidità di pre-visione: la cultura europea (ovviamente non solo) è stata colonizzata dalla cultura a stelle e strisce. Nel bene e nel male. E quella cultura ha avuto una influenza pervasiva e permanente anche sui comportamenti individuali e collettivi.

Alla fine di tutto, penso che Gramsci si domandasse quanto di nazionale e quanto di popolare vi fosse nella nuova musica. Che è domanda non banale ancora oggi.

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