Nei giorni scorsi l’ottima Greta Benatti mi ha mandato il testo, da lei accuratamente ritrascritto, di un lungo articolo firmato a quattro mani da Giuseppe Gavioli e da me e pubblicato nell’estate del 1975 sulla rivista Quaderni Modenesi.
Il testo dovrebbe confluire in appendice ad un volume contenente gli atti di un convegno dedicato a Beppe, il politico l’amministratore l’intellettuale.
Come si direbbe in gergo, è stato come sentire bussare alla porta, andare ad aprire e trovarsi di fronte il passato. Un ospite con il quale è difficile avere relazioni semplici, accomodanti, divertenti.
Ricordavo vagamente quel lavoro, non ricordavo nulla del contenuto. Ho capito il perché andando a leggerlo. Sono sette cartelle non facili da digerire e, soprattutto, da decrittare.
Dirò la verità: ero curioso di capire quale fosse stata la mia parte in quel testo; a lettura conclusa ho capito che c’era davvero poco. Del resto, quando lo scrivemmo io non avevo ancora 22 anni. Eravamo precoci, ma non come molti dirigenti comunisti (o socialisti o laici, perché Gavioli non si era formato nelle sezioni del PCI), venuti prima di noi, che avevano iniziato lotte, attività, scioperi, manifestazioni, volantinaggi da ragazzi. Ed erano entrati presto nei consigli comunali.
Mi sono domandato perché Gavioli avesse voluto che io firmassi quel testo con lui, ma su questo punto una risposta (quasi) convincente penso di averla. L’ho trovata alla fine di quelle sette cartelle, nelle righe nelle quali credo di ravvisare la mia mano di allora, la mia piccola esperienza di quei mesi. Ma ci arrivo dopo.
Beppe Gavioli non parlava in quel modo, ma un testo di riflessione politica doveva essere scritto come se dovesse essere pubblicato sul settimanale Rinascita. In quel testo ho trovato una enorme difficoltà e una bella apertura. E’ un testo datato anche nel linguaggio, ma questo non mi sorprende. Mi sorprende che quel linguaggio venisse dalla penna di Gavioli.
Si cercava di riflettere sul capitale politico e umano che la vittoria nel referendum del 1974 aveva messo nelle mani del Partito Comunista Italiano, sul ruolo degli intellettuali (intesi in senso corretto, per esempio ripensando agli insegnanti e alla scuola), sulla necessità di aprire la cultura politica del Pci. E di aprirne le stanze. Un problema affrontata con serietà, diciamo pure con severa seriosità. Era il tempo degli indipendenti di sinistra, che molto portarono e molto lasciarono intatto.
Mi sono domandato se la difficoltà, per me oggi, a comprendere quel testo derivi dai riferimenti a dibattiti e persone delle quali ricordo poco o nulla, oppure dalla mutazione del mio armamentario culturale. Non sono più abituato, se mai lo sono stato, a parlare e a scrivere così. Non è positivo o negativo, è solo una presa d’atto. So, peraltro, che quell’armamentario dialettico è decisamente marginale ai tempi nostri.
Quale era, dunque, la piccola parte, piccolissima, nella quale ho creduto di riconoscere la mia mano? Qualche ultimo capoverso, nel quale si cercava di ragionare sul piccolo magma del “mondo cattolico” dopo il referendum sul divorzio. Ero giovane, molto inesperto, politicamente errabondo, ed ebbi un ruolo marginale della battaglia del 1974; eppure, Giuseppe cercò di agganciare alcuni giovani, sia per essere aiutato a capire cosa stava avvenendo sia per mettere a frutto gli esiti di quella battaglia. Perché battaglia fu, soprattutto battaglia delle idee, che per una volta a me (che ingenuo!) parve tramutarsi subito in una vittoria sonante. Duratura.
In quei capoversi riconosco uno stile fragile, che anticipa i modi del giornalismo, abituato a surfare sulle onde, contro il navigare in mare aperto del migliore pensiero politico.
Il testo si concludeva con un richiamo all’esperienza del quotidiano Il Foglio, che era il tentativo di Gorrieri e Pedrazzi, e di altri con loro, di raccogliere le truppe del mondo cattolico che non avevano seguito la Dc di Fanfani l’anno precedente ma che loro non volevano lasciare senza punti di riferimento, perché inevitabilmente sarebbero finite nelle braccia del Pci. Così avvenne, infatti, nei due anni che seguirono il referendum.
Fu così che andarono le cose, almeno in parte, e l’anno seguente Giuseppe mi chiese di seguire uno dei candidati indipendenti che il Pci intendeva far entrare al Senato. Diciamo che allora non era un problema avere qualche indipendente paracadutato sul territorio, perché la voglia di dare aria alle stanze era grande. Giusta o sbagliata che fosse. Il candidato si chiamava Paolo Brezzi, torinese di nascita, storico del cristianesimo, persona mite e cortese, che ricordo anziana, benché avesse meno di sessant’anni quando si ritrovò a girare da queste parti a fare comizi. Ne ricordo ancora uno vicino al ponte del quartiere Madonnina (a Modena), piacevole e surreale. Ma non inutile, perché per molti compagni fu come ascoltare una nuova lingua, vedere un nuovo film.
Brezzi entrò a Palazzo Madama, come era stato deciso e come avvenne per la spinta del voto popolare. Partecipò poi anche all’esperienza della rivista Bozze 78, voluta da Raniero La Valle, e alla quale contribuirono Giuseppe Alberigo, Ernesto Balducci, Mario Gozzini, Gianni Baget Bozzo, Enzo Bianchi, Italo Mancini, Valerio Onida, David Maria Turoldo.
Finisco la lettura del lungo articolo e mi torna alla mente quella frase che viene attribuita a Nathaniel Hawthorne: il passato giace sul presente come il corpo morto di un gigante. In effetti, sento che fatico a muovermi.