Il terremoto io non l’avevo mica capito. Perché, quando nel ventre della notte ho sentito la testiera di legno del letto battere contro il muro, ho pensato: è la terra che fa le onde.
E mi sono detto e ripetuto, nel dormiveglia, che era venuto il tempo di salpare. E ho svegliato la moglie e il figlio maschio per farli salire a bordo il più in fretta possibile. E mi ha preso dolore e nostalgia per la figlia lontana e ho sentito che la nave non era al completo e che il nostro viaggio sarebbe stato un viaggio inseguito dalla nostalgia. La mia città è una nave che galleggia sopra un immenso lago malfidato: se ne vede solo l’albero maestro, la bianca torre infissa nel terreno, ma il resto è tutto sotto, nascosto dai ciottoli e dall’erba, dalle case e dai portici, come un’astronave di Moebius.
La ciurma è tornata presto sottocoperta e io sono rimasto accerchiato da ansia e inquietudine. Come potevo affrontare il terremoto? Cercando di capirlo, mi sono detto. E di capire come reagire, ho aggiunto. Debbo avere sottomano le pillole per la tranquillità e forse cercare uno psichiatra per analizzare le pulsioni. Ho fatto ricorso all’unico medicinale che ho trovato: la cronaca del notaio Jacopino de’ Bianchi.
Prima di tutto ho capito perché l’unico libro rimasto era una cronaca del Cinquecento. Perché questa volta Plinio e le sue fantasie non mi erano di alcuna utilità. Questa volta il terremoto non era dalle parti della collina, verso Sassuolo e oltre, come lui aveva raccontato, descrivendo effetti speciali degni di un B movie italiano. Ma debbo ammettere che quei due monti che si lanciavano l’uno contro l’altro e si scontravano con forte fragore e a vicenda scostandosi mi hanno sempre impressionato. Me li immagino anch’io i cavalieri romani e la loro gente fermi sulla via Emilia, mescolati agli altri viaggiatori, gente del nord, a guardare ammirati e impauriti fiamme e fumo levarsi al cielo. L’olio di pietra o di sasso, che di solito gorgoglia a pelo d’erba misto all’acqua di sotto, quella volta si lanciò alto come in un pozzo di petrolio del Mare del Nord. I piccoli coni di fanghiglia, chiamate salse, divennero vulcani ed eruttarono per tre giorni e bruciarono alberi e campi tutto intorno.
No, il solo terremoto del quale un modenese nato all’ombra della torre può conservare memoria nel proprio dna è quello del 1501. Cinque giugno, a mezzodì di un sabato. Era un caldo estremo, scrive Jacopino, tanto grande che i contadini morivano nei campi.
“e per ditto terremoto cascò edifitii assai, torri, merli de palaci e camini, e, amazorno e guastorno persone assai etiam boi e carra”, de modo che ogni omo cridava, misericordia, et se pensava che el fuse la fin del Mondo a vedere la Tore del Domo tondolare che la pareva una piopa quando el vento la scote”
E poi, e poi… il notaio cronista mi mise l’ansia, perché aggiunse che un’altra volta dell’anno 1505 la notte di Santo Silvestro tirò un grandissimo terremoto, e molte volte da poi, e quasi sempre di notte, e fecero grandissimo danno nel Duomo e in altri edifici grandi, etiam in le altre cità de Italia.
E poi, e poi… non era ancora finita perché, oltre i “ditti terremoti habiamo sempre hauto grandissime carastie, guerra, e moria” , e la carestia è durata per più di trent’anni. Non rimaneva che una sola risorsa agli uomini sopravissuti e stremati. La città si riempì di “compagnie vestite de sachi, batendose alle giesie e domandando perdono a Dio”.
Altri tempi, altre fedi. Ma la mia ansia e la mia inquietudine non si tramutarono in paura quando lessi della torre alta del palazzo comunale, quella ai piedi dello scalone principale, e delle sue campane. Il terremoto del 1501 l’aveva fatta parzialmente crollare, ma già il 25 agosto avevano finito di costruire l’impalcatura necessaria a pareggiarla e a rimetterla a nuovo. Sarebbe divenuta più bassa, certo, ma sarebbe pur sempre stata una bella torre. Le diedero anche un nuovo nome, non elogiativo ma pur sempre pieno di affetto. Torre Mozza. Ma nel 1671 ecco un nuovo terremoto e la torre non poté rimanere torre, neppure abbassata: fu gettata a terra tranne per un piccolo basamento ed è rimasta come segno della propria esistenza, come luce di stella morta imprigionata nel nuovo Palazzo della Comunità.
Tolsero la campana maggiore, quella che convocava il Consiglio comunale, il campanaccio che adunava il Senato, come scrisse poi il Tassoni, e la collocarono nella Torre detta dell’orologio, proprio lì accanto.
E anche adesso, che leggo i giornali come fossero il resoconto di un cronista medievale, continuo a capire di non aver capito, ma so che una torre rimane torre anche quando ne rimane solo il disegno squadrato nell’aria.