Mio zio era un fornaciaio. Se non sapete che mestiere fosse non vi dovete preoccupare perché il suo mestiere è scomparso da tempo, come la sua fornace. Al suo posto ora c’è una concessionaria di automobili, che è pur sempre a suo modo un concetto di casa.
Mio zio non si era mai sposato e mio padre, che era poi suo fratello, lo aveva portato a vivere con noi e con la loro anche la vecchia madre. A quei tempi si usava così, anche se credo che mia madre avesse sognato qualcosa di diverso, sapevo che le sarebbe piaciuto andare a vivere solo in tre nella nuova, nuovissima casa popolare.
Ma questo era e mia madre se lo faceva bastare. Ogni sera preparava qualcosa da mangiare per mio zio, glielo metteva in una gamella ben serrata, che lui portava dentro una vecchia borsa fino al lavoro. Non era una borsa, era una vecchia cartella di scuola, che chiudeva sopra la canna della bicicletta con la quale andava al lavoro. Non aveva la patente, non aveva l’auto, aveva un lavoro e una bicicletta. E un letto a casa nostra.
Provai a capire che lavoro fosse il suo e lui cercò di spiegarmelo, ma forse ricamò qualche parola sulla grande fornace, sul fuoco, sulla terra e sull’argilla, sui mattoni, che erano di diverse misure e servivano per fare edifici diversi.
Ma ci si può cuocere anche le statuine di terra? La mia domanda era infantile, ero un bambino mica Michelangelo. La fornace non era fatta per questo ma ci si poteva provare. E così, una mattina, mio zio mi caricò sulla canna della bicicletta e pedalò fino alla sua fornace, che si trovava sulla via Vignolese, prima della curva di San Damaso.
Non era poi così vicina e francamente il manico della cartella sotto il sedere non mi faceva stare comodo. Poi dovevo stare attento a non fare cadere le due statuine che sarei andato a cuocere.
In realtà, mio zio non sapeva quanto tempo servisse per cuocerle per davvero, e nemmeno i suoi compagni di lavoro lo sapevano: non lo avevano mai fatto. Comunque le prese, le mise in un angolo dicendomi che ci sarebbe voluto del tempo, che mi mettessi da qualche parte lontano dal fuoco mentre lui lavorava.
E così vidi i fornaciai al lavoro. Vidi mio zio imbracciare un grosso pettine di legno, infilare i denti del pettine nei buchi dei mattoni forati e metterli dentro la fornace. Era davvero un mestiere d’inferno, vicino ad un fuoco che bruciava i volti e le braccia. Lavoravano tutti in canottiera e alcuni anche a torso nudo; di tanto in tanto si fermavano a bere dell’acqua, che prendevano con un mestolo da un grosso mastello di metallo. Poi ricominciavano. Quella fornace non era automatizzata, tutto era braccia e dita e schiena di quegli uomini.
Era la fine degli anni Cinquanta e il boom economico non era davvero ancora iniziato. Quella fornace era il vecchio mondo, era la preistoria del benessere. Per chi l’avrebbe preso.
Loro non lo sapevano, e nemmeno io ovviamente, ma quel mondo era fermo al medioevo, mille anni prima e anche più.
Quanto alle statuine, più che cuocersi si bruciarono e ad una si staccò anche la testa. Ma non piansi, sapevo che l’avrei riattaccata a casa. L’artista che si nascondeva dentro di me ebbe il buon senso di fermarsi quel giorno in quella fornace, la passione per i plasticatori come il Mazzoni e il Begarelli non mi è più andata via.
Ps Quando mi iscrissi all’università sapevo già quale sarebbe stato il primo esame. Storia medievale, what else?