Racconta Giorgio Vasari che il sommo Michelangelo avrebbe esclamato, vedendo le opere di Antonio Begarelli: “Guai alle statue antiche se questa creta diventasse marmo…” .Begarelli, chi era costui? E’ probabile che a molte persone il nome di Begarelli dica poco e nulla, e che le sue opere risultino del tutto sconosciute. Effetto del tempo, che tutto setaccia e poco lascia passare. Anche se, ancora a metà Ottocento, il grande storico Jacob Burckhardt evocava un paragone di tutto rispetto: “il gruppo delle donne è invece ottimo, come effetto pittorico; l’espressione del dolore è nobile ed impressionante al tempo stesso; le teste sono grandiose, come le troviamo solo nel periodo della massima fioritura. La donna a sinistra della Madonna, per esempio, trova il suo riscontro più stretto nella Salita al Calvario di Raffaello”.
Burckhardt si riferiva alla Deposizione dalla Croce conservata nella Chiesa di San Francesco a Modena, un bellissimo gruppo scultoreo in terracotta che si sviluppa attorno al corpo del Cristo morto sulla croce.
Antonio Begarelli, La deposizione dalla croce, Chiesa di san Francesco a Modena
A Novecento inoltrato, anche il ferrarese Filippo De Pisis rimase prigioniero delle reti di fascino che quelle opere lanciavano su chi le osservava. “Le teste in lagrime del Mortorio di Modena sono certo tra le più belle ed espressive opere scultoree di questo periodo, da avvicinarsi ai più rinomati artisti toscani dell’epoca”, scriveva del Compianto conservato nella Chiesa di San Giovanni Battista.
Voglio rimandare alle parole di Riccardo Bacchelli, che individuò proprio nel cotto emiliano e romagnolo il simbolo di una terra impastata d’acqua e di terra, ovvero di creta fangosa. Una terra che faceva di necessità virtù, poiché il nobile marmo prezioso doveva esser fatto arrivare da Verona o dalle Apuane.
La terracotta era arte povera, che confinava “con l’eccellenza dei fornaciai di mattoni e terrecotte”, come ancora diceva lo scrittore bolognese. E con altre lavorazioni d’artigiani proprie di questa regione. Narra un antico cronista modenese, Tommasino Lancelotti, del suo conterraneo Guido Mazzoni che “era bon magistro de fare figure de releve de terra cotta e de colorirle che parevano naturale, e questo perché quando el principiò detto esercizio faceva mascare bellissime che erano portate per tutto il mondo”.
La produzione di maschere, particolarmente ricche e fantasiose, fondò una piccola fortuna e una non trascurabile fama per la Modena estense. Per trecento anni almeno la città fu famosa di queste produzioni, come oggi lo è delle piastrelle. Oggi come allora vi è la stessa capacità di ricavare ricchezza da un’arte apparentemente povera, di mescolare l’alto e il basso, di mettere bellezza in oggetti di consumo. Al punto che gli storici dell’arte spesso non sapevano come sbrogliare la faccenda: relegare in serie B quelle opere, così “rozze e popolari”? La tentazione era forte, ma il dubbio che li assaliva non lo era di meno. Perché erano tanto popolari? Perché la loro potente bellezza si faceva strada nell’animo delle persone, soprattutto di quelle più umili?
Guido Mazzoni, Compianto sul Cristo morto, chiesa di San Giovanni a Modena
L’etno-antropologo Ernesto de Martino conosceva bene il Compianto del Mazzoni (quello ammirato da De Pisis), nel quale si riflettevano, secondo il suo occhio e la sua scienza, “i modi della lamentazione antica”, codificata in rituali gestuali e verbali. Del resto, è comprensibile a chiunque che le figure doloranti del gruppo di San Giovanni Battista sono colte nel momento più alto e toccante delle loro lamentazioni, insieme stravolte dal dolore e rattenute dalla forma del rito funebre. Una leggenda antica e molto radicata voleva che il Mazzoni modellasse quelle teste direttamente sui volti dei morti.

Poche volte nell’arte (un caso esemplare è quello del Compianto di Niccolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna, peraltro un assoluto capolavoro) è possibile trovare una conferma del senso dei rituali, spesso antichissimi, collegati alla morte, perlomeno in Italia e nell’area occidentale. “I rituali trattengono l’uomo al di qua del dolore e lo restituiscono alla vita mentre trasformano la presenza assillante del morto in un’ombra protettrice” aveva scritto De Martino. Ed è il significato che i gruppi in terracotta esprimono e l’interrogativo che ci inoculano lentamente.
Fino ad oggi poco o nulla è stato fatto per promuovere questi capolavori, per mostrare la bellezza di un’arte antica, affascinante ed enigmatica, che esprime allo stesso tempo la vocazione storica di un territorio e il rovello lungo delle domande sulla morte e sul dolore degli uomini d’Occidente.