Si intitola Vita di Nullo ed è l’ultimo romanzo di Diego Marani, un ferrarese trapiantato a Bruxelles. (Il libro è edito da La nave di Teseo).
Dicevo trapiantato perché a Bruxelles, se non sei belga (che vuol dire francofono o fiammingo), o ci vai da turista oppure rischi di fare la fine di una delle 540.000 begonie recise, utilizzate per realizzare il tappeto di fiori che decine di volontari sistemano sulla Grand Place verso il Ferragosto. Colorate e bellissime, come un arazzo antico, di quelli esposti nel Museo della città, proprio nella Maison du Roi che s’affaccia sulla stessa piazza, ma senza radici e destinate a sfiorire dopo una effimera esibizione.
Oppure, ti trapianti nel cuore dell’Europa, con la difficile capacità di maneggiare radici, fiori, foglie delle tue origini, divenendo un cittadino del mondo. Insomma, a farla breve e smettendo con metafore e similitudini, riesci a mettere le ruote alle radici.
Diego Marani è un ferrarese di Tresigallo, prima traduttore poi funzionario della Commissione europea. Lavora presso il Servizio europeo di azione esterna della UE, dove si occupa di diplomazia culturale. Le lingue sono pane per la sua bocca al punto che molti anni fa si è divertito a inventarne una. Si chiama europanto e lui ci ha prodotto editoriali per quotidiani (per esempio Le Soir), siti web, riviste e anche una raccolta di racconti (Las Adventures des Inspector Cabillot).
Il suo primo e forse più famoso libro, intitolato Nuova grammatica finlandese, è anche la testimonianza di un lavorio sulla lingua, sui linguaggi e sulla identità che Marani conduce da almeno vent’anni.
Quest’ultimo romanzo parla delle radici, ma in modo un poco diverso da tanti altri che abbiamo visto passare davanti ai nostri occhi annoiati. Perché parla delle radici del “noi”, e non solo o non tanto dell’Io.
Non voglio darvi l’idea che si tratta di un saggio sociologico, questo è comunque un romanzo, ben raccontato e ben pensato. Molto ferrarese, ma solo all’apparenza; molto europeo, ma senza darlo a vedere.
E ora lascio la parola all’autore, nel senso che ho rubato due lunghe frasi ad una intervista pubblicata di recente sul sito Eunews.
“Il vero personaggio di questo romanzo è un paese, il mio. E racconta di qualcosa che nel nostro mondo è andato perduto: il tessuto sociale. Quella trama fitta di rapporti, frequentazioni, conoscenze, affetti e anche contrasti che nel bene e nel male tengono insieme una comunità di persone”, spiega lo stesso Marani.
La storia si svolge in un bar, che è diventato improvvisamente vuoto da quando Nullo se ne è andato via.
Nullo è un bambino grasso, è la vittima sacrificale dei coetanei, a scuola e nel tempo libero. Nullo è uno di quei lucidi folli che fioriscono nella Provincia italiana. Ha idee strampalate, geniali, è lo zimbello di tutti, si offre allo scherno ma riempie la vita di tutti.
“La mia intenzione qui non è di esaltare il vivere paesano e la sua atmosfera da cortile. In fondo dal mio paese sono fuggito. Nella sua semplicità, nel suo concluso orizzonte, soffocavo. Sono andato alla ricerca della complessità- spiega Marani -, della varietà, in relazioni tutte intellettuali, tutte scrupolosamente scelte e mai lasciate al caso. La mia è una vita di cosmopolita a cui mi sono lungamente addestrato e che ora conduco con una sorta di snobismo, mai pago di scavalcare frontiere. La mia appartenenza adesso non ha più un luogo, è lo sparso mondo poliglotta dei nomadi come me”. Però che qualcosa che Marani scopre: “Di noi ci piace dire che le radici ce le portiamo dentro. Ma non è vero. Io le ho lasciate laggiù, al mio paese. Solo perché nella mia memoria le tengo ben salde e protette, solo perché sono certe e profonde riesco a andare incontro alla diversità di cui mi compiaccio”.